Il rapporto Cerved PMI 2017 ha analizzato, anche quest'anno, lo stato di salute economico-finanziaria delle società italiane che rientrano nella definizione europea di Piccole e Medie Imprese.
Un ampio spazio è stato ovviamente dedicato al Piano Industria 4.0 che, come si legge nel dettagliato documento di valutazione, ha l'obiettivo di “rilanciare la competitività dell’industria e dell’economia italiana. Il piano ha già prodotto risultati importanti in termini di investimenti e di spesa in R&S, nel primo semestre dell’anno cresciuti con tassi a doppia cifra. I dati relativi ai settori industriali a più alta automazione, quelli che hanno il potenziale per beneficiare maggiormente della diffusione delle nuove tecnologie, indicano che le PMI che operano in questi comparti sono caratterizzate da una maggiore propensione all’investimento, necessaria a tenere il passo dello sviluppo tecnologico. Sono PMI con una produttività più alta delle altre imprese industriali, a cui corrispondono costi del personale più elevati, compatibili con una forza lavoro più qualificata. Ne sono seguite performance decisamente più brillanti per le PMI ad alta automazione, con un differenziale di crescita di 15-20 punti percentuali in termini di ricavi e di valore aggiunto nel corso dell’ultimo decennio e una redditività netta quasi doppia rispetto a quella dei settori meno automatizzati”.
Risultati che verranno confermati anche in futuro, perché “queste imprese industriali hanno un ampio potenziale per accrescere in modo molto consistente gli investimenti nei prossimi anni, mantenendo una struttura finanziaria equilibrata. Le 15 mila PMI ad alta automazione che Cerved classifica come sicure o solvibili potrebbero infatti investire incrementando i propri debiti finanziari fino a 31 miliardi di euro, mantenendo un grado di rischiosità estremamente contenuto”.
Più automazione, più occupazione!
“La possibilità di automatizzare molte mansioni con l’utilizzo di nuove tecnologie – si legge nel documento – ha tuttavia suscitato timori sugli effetti occupazionali del piano. Attraverso un database molto ampio – che grazie alle informazioni di Cerved e dell’INPS consente di analizzare oltre 300 mila società italiane e gli 8,3 milioni di lavoratori impiegati in queste imprese – si sono analizzate nel capitolo monografico le performance delle aziende che hanno maggiormente investito in innovazione e le ricadute sui lavoratori”.
Le imprese sono state classificate in termini di grado di innovazione e propensione agli investimenti nel 2007 e seguite nella loro evoluzione attraverso tutta la crisi, fino al 2015. L’innovazione è stata considerata in un’ottica ampia, che comprende anche gli investimenti in innovazione diversi da quelli in automazione, anche se effettuati da imprese non industriali e che comunque sono compresi tra gli incentivi di Industria 4.0. Le analisi indicano che le ‘aquile’ – ossia le società che hanno fortemente investito in innovazione ma anche in capitale fisico prima della crisi – “sono società mediamente più giovani, che impiegano una forza lavoro più qualificata, con una maggiore quota di donne e di lavoratori under 45. La propensione agli investimenti è accompagnata da un indebitamento maggiore e, in generale, da profili più rischiosi rispetto alle imprese che non hanno effettuato forti investimenti in innovazione. Questo si è riflesso in tassi di default più alti, che però sono stati più che compensati dall’ingresso sul mercato di nuove aziende”.
Le imprese sopravvissute che hanno investito in innovazione hanno anche evidenziato performance decisamente migliori in termini di crescita, produttività e redditività. Viceversa gli ‘struzzi’ – il gruppo di imprese meno innovative e con una bassa propensione agli investimenti – hanno visto crescere il proprio profilo di rischio, ridotto i ricavi e la produttività, con una forte contrazione dei profitti.
I maggiori tassi di mortalità delle imprese più innovative hanno avuto conseguenze sull’occupazione: i lavoratori di queste aziende hanno una probabilità più alta di quelli delle altre imprese di non essere più impiegati nel 2015. Allo stesso tempo, però, il gruppo delle aquile è quello che ha più accresciuto l’occupazione tra le imprese sopravvissute e che ha tratto maggiore beneficio occupazionale dalla nascita di nuove aziende, con effetti netti positivi sul totale degli occupati. I lavoratori di queste imprese mostrano anche una maggiore capacità di trovare in tempi brevi un’altra occupazione.
Le statistiche indicano infatti che tra i lavoratori delle aquile è più bassa la disoccupazione di lungo periodo ed è maggiore la probabilità di cambiare azienda migliorando le proprie condizioni. L’innovazione è rischiosa ma, quando ha successo, fa crescere le imprese. Se il trade-off fra crescita e rischio che caratterizza le imprese innovative era atteso, più sorprendenti sono i risultati sui salari. Le aquile pagano infatti salari più bassi delle altre imprese, contrariamente a quanto ci si attenderebbe, sulla base del fatto che offrono posti di lavoro meno sicuri. Inoltre, il tasso di crescita dei salari fra il 2007 e il 2015 è stato abbastanza simile fra i gruppi, non riflettendo le forti differenze che si sono verificate dal lato della performance d’impresa, particolarmente in termini di crescita e produttività.